Elvino, mio papà

Rede/discorso – 12 agosto 2021

vorrei essere un larice

non dover bere

né fumare

non dovermi muovere

lasciarmi solo

ondeggiare

vorrei essere un larice

nella neve

senza vestiti

& con lo sguardo

scorrere il paesaggio

verdelarice in primavera

lasciarmi solo ondeggiare

da suolo pioggia grandine

vento

pure più vecchio

vorrei diventare

di lui

n c kaser

Elvino è nato il 6 giugno 1957 da padre pugliese di Biccari e madre slovena di Gorizia. Figlio unico, è cresciuto nel quartiere “Siberia” ai Piani di Bolzano e in via Visitazione. Ha perso suo padre da adolescente, si è diplomato alle Ragionerie e ha fatto il lavoro di contabile, sino alla pensione lo scorso anno. 

“Liberto” è un cognome frutto di un errore all’anagrafe, di quelli che si facevano nel Novecento. Prima era “Liberti”, al plurale. Per molti anni, quindi, siamo stati i due soli “Liberto” in Alto Adige, due maschili al singolare. Questo siamo stati, questa è la storia del nostro nuovo cognome.

Mi hai regalato una lingua del padre, la lingua italiana. Ti piaceva scrivere – poesie, racconti brevi – e a scuola mi aiutavi nei compiti. La tua scrittura rispecchiava il tuo carattere: esageratamente allegra, piena di immagini liete, un po’ altisonante, felice.

Du warst auch perfekt zweisprachig, come tuo padre imparasti il tedesco ed eri fiero del tuo patentino di bilinguismo. Hai sposato una donna di lingua tedesca, mia mamma Elisabeth, e hai avuto una compagna di lingua tedesca, Renate. Es war net oanfach, a zweisprachiger Italiener in Südtirol zu sein, und zum Teil isch immer noch. Ma tu non ti sei mai fatto problemi. Hai imparato altre lingue, l’inglese e il francese, eri curioso, parte di quel Sudtirolo dov’è bello vivere.

Mi hai regalato il senso dell’umorismo. Sino all’ultimo istante, hai cercato di restare sempre di buon umore, mai negativo, con la battuta pronta. A volte esageravi anche. In tv guardavamo programmi comici o satirici, mi ricordo quanto ci faceva ridere l’“Ingegner Cane” di Fabio De Luigi, col suo “mille”, lo ripetemmo insieme millemilioni di volte.

Mi hai regalato la tua musica, meravigliosa forma del tempo, con la passione per il pop-rock, dai Talking Heads agli U2 ai Litfiba, che ha contaminato per sempre i miei gusti musicali. Pure nelle tue ultime ore di vita volevi ascoltare ancora un po’ di “music”.

Con te ho condiviso la passione per minerali, pietre e cristalli. Insieme andammo alla fiera mineralogica più grande d’Europa, in Alsazia. Sono stati i nostri giorni più felici.

Con Elvino ci siamo scambiati l’amore per il Sudtirolo e le sue montagne. Quand’ero piccolo, durante le numerose gite con Elisabeth, ti ossessionavo con la mia fissa per i nomi delle cime e la geografia di qui. Una volta, quando realizzai coi pennarelli una mappa dei dintorni di Bolzano, la mostrasti ai colleghi di lavoro tutto fiero. Negli ultimi anni, con Renate, hai riscoperto la passione per le lunghe escursioni e le camminate d’alta quota che fu di mio nonno. Ora, che eravamo più distanti, eri tu a conoscere il nome di ogni vetta dell’Alto Adige, a essere orgoglioso di vivere quassù.

Ora, Elvi, ogni montagna del Sudtirolo porterà il tuo nome.

Il nostro cognome significa “schiavo liberato”, contiene la parola “libertà”. Mi hai sempre lasciato libero, nelle scelte e nelle idee, io di sinistra e tu un po’ di destra, m’hai sostenuto nell’avventura politica e nelle velleità di scrittura. Non ti sono mai interessate le convenzioni, le tradizioni, le apparenze, il “si fa così perché si deve”: credevi nell’essere umano, nella forza dei sentimenti, anche quelli difficili. Eri dissacrante e anarchico nell’animo, pur credendo in qualcosa di più grande, elevato, spirituale: il modo migliore di essere rivoluzionari non sta sempre nell’inseguire un’idea, ma nel vivere diversamente la propria vita, fuori dagli schemi per davvero. Lo hai fatto, perché eri una semplice persona, un uomo buono e giusto, nonostante le asperità.

Si parla sempre bene delle persone morte, tutt’al più dei propri genitori, ma forse solo nell’ultimo miglio mi sono accorto di aver preso da te più di quanto io abbia mai creduto, di somigliarti più di quanto io abbia mai capito. Un’amica mi ha scritto: È stato un privilegio per me conoscerlo e vedervi assieme, e ho ricordi e sensazioni di un rapporto complicato ma sempre intenso e vero. Stanotte l’ho sognato, era in macchina. Non so dove sia adesso, ma so che sarà presto con te, lo sentirai rivivere in te in un modo nuovo. È crudele, ma sento che tutto cambia soltanto.

È il mio corpo che cambia 

nella forma e nel colore

è in trasformazione

è una strana sensazione

in un bagno di sudore

è il mio corpo che cambia

e cambia, e cambia.

Addio Elvi, è stata una fortuna averti come marito, compagno, e come papà.

elvino liberto, bolzano 6 giugno 1957 – bozen 9 agosto 2021

Come va, Bolzano?

Come sta la mia città? Vorrei aprire una discussione attorno a questa semplice domanda, rivolta a quanti vivono, lavorano o studiano a Bolzano/Bozen. Lo chiedo da “expat”, il quale da tempo risiede altrove e ha perso un po’ il polso della situazione. La città capoluogo, vista da lontano, sembra avere qualche linea di febbre ed essersi lasciata un po’ andare. Solo un’impressione, oppure c’è un fondo di verità? Senza volermi sostituire a chi sta già ragionando su questo in maniera più articolata e senza entrare nella campagna elettorale, vorrei integrare tale riflessione con il punto di vista dei “non addetti ai lavori”, dentro ma anche e soprattutto fuori dai miei contatti. Perciò vi propongo di rispondere alla domanda (“bene” o “male”, motivando) e di far rispondere ad altre e altri, commentando e condividendo questo post, oppure compilando un brevissimo questionario anonimo preparato per l’occasione.

Update 21 gennaio 2020: Grazie di cuore a quanti stanno rispondendo al questionario su “Bolzano, come stai?” (chi non l’ha ancora compilato lo trova qui: https://forms.gle/7D7Jjgq4hYsa3qE48). Che poi, a giudicare da alcune risposte, è anche un “Bolzano, dove vai? Bozen, wie geht’s weiter?“, ovvero un domandarsi quale direzione, o quale piega, stia prendendo la città più grande dell’Alto Adige/Südtirol e se ci riconosciamo in essa. È un tema che riguarda lo sviluppo delle città in genere, l’abitabilità dello spazio urbano e la sua fruibilità sociale e culturale. Mi piacerebbe discuterne insieme.

Congrats, you have an all male tram!

Domenica 24 novembre Bolzano andrà al voto per il referendum sul tram, progetto di mobilità sostenibile sostenuto dalla giunta comunale. In questi giorni si è costituito un comitato di “giovani per il sì” composto da esponenti dei partiti favorevoli al tram, Verdi, PD, SVP, Team-K, Süd-Tiroler Freiheit e Volt. Durante la conferenza stampa di presentazione, si è posto l’accento sul valore di una piattaforma giovane, interpartitica e plurilingue: Nicht die Partei, nicht die Sprache zählt, sondern die Sache, “non conta il partito, non conta la lingua, conta la questione”, titola Salto.bz. Evidentemente non contava nemmeno il genere, tanto da esserne sfuggito uno:

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Nessuno tra i sei partiti promotori è rappresentato da una donna, e in un’altra foto se ne conta soltanto una tra 11 uomini. Un caso? Non credo. Vi saranno capitati decine di altri eventi pubblici nei quali intervenivano solo uomini. Esiste persino una pagina Twitter, Congrats, you have an all male panel!, che si prefigge di documentare “all male panels, seminars, events, and various other things featuring all male experts”. A tale malattia non sono immuni le giovanili di partito bolzanine: la segreteria provinciale dei Giovani Democratici (segretario, vice, tesoriere, presidente dell’assemblea) è composta di soli maschi, e uomo è pure il segretario cittadino.

La politica sembra ancora una questione per uomini, nonostante il ricambio generazionale. In uno scritto del lontano 1984, Qualche modesto consiglio ad un giovane che si voglia dare al commercio verde, Alexander Langer consigliava di “cedere il passo alle donne“. Sarebbe bello se, 35 anni dopo, quest’invito fosse accolto dai giovani politici di Bolzano, tanto sensibili alla conversione ecologica della loro città. Perché dal tram si può anche scendere.

Understanding Bodei

Sul funerale del prof. Remo Bodei, morto a Pisa il 7 novembre 2019

L’ultima volta che vidi Remo Bodei fu circa un anno fa, mentre attraversava Ponte di Mezzo con in mano delle grosse buste della spesa. L’immagine mi face un po’ sorridere: il grande professore e filosofo, minuto e con indosso una giacca beige, era del tutto immerso nella propria quotidianità. Da allora non lo incrociai più. Quando venerdì, a un incontro in università con lo scrittore portoghese Almeida Faria, egli accennava ai paesaggi sublimi delle Alpi – tanto diversi dai latifondi arsi dal sole dell’Alentejo – ho ripensato a Bodei e a un suo libro di qualche anno fa, Paesaggi sublimi. Gli uomini davanti alla natura selvaggia. “Da Petrarca in poi, la montagna è legata all’ascesa, anche spirituale”, spiegò in un’intervista, “ed è curioso come il giovane Hegel in viaggio sulle Alpi, mentre i suoi precettori erano estasiati dal paesaggio, si concentrasse sui montanari che dai fiori producono il liquore genepì. Forse l’idea hegeliana dell’‘astuzia della ragione’ è nata in montagna, guardando come il lavoro umano introduce una finalità dove prima non c’era – persino nei fiori”.

Le corone di fiori circondano la bara, posta al centro del cortile della Sapienza, il cuore storico dell’Università di Pisa. Le tinte grigie del selciato e del cielo che minaccia pioggia sono spezzate dal bianco delle facciate appena restaurate. Sotto al loggiato mediceo giungono alla spicciolata, oltre ai familiari del filosofo cagliaritano, professori e allievi, politici ed ex primi cittadini. Spunta Maria José de Lancastre, la vedova di Antonio Tabucchi, in città per il Pisa Book Festival. Ci sono anche i sindaci e i gonfaloni di Modena – dove Bodei ha dato vita al Festival della Filosofia – e di Carrara, nella quale anni fa seguii una sua lezione nell’ambito della rassegna Convivere, di cui era il direttore scientifico. Assenti alla commemorazione, invece, il magnifico rettore (che ha inviato un messaggio di cordoglio) e il sindaco di Pisa: un’assenza segno dell’inequivocabile stato di declino, immane, in cui versa la città.

Al microfono si susseguono, nell’ordine, uno dei primi assistenti, uno dei primi allievi, un’allieva degli anni novanta nonché assistente, un politico (e fu allievo), un familiare. Negli interventi si ricorda la capacità di Bodei di conciliare saperi alti e vita quotidiana, con l’abitudine di intervallare le lezioni con vari aneddoti; la voce che sembrava sempre un po’ rotta dall’emozione, e l’erudizione che non allontanava mai, ma avvicinava gli studenti; la straordinaria memoria fotografica, ovvero la capacità di citare a memoria passi interi della miriade di testi che aveva letto; e infine i suoi numerosi riferimenti al mondo animale – celebre il titolo La civetta e la talpa. Sistema ed epoca in Hegel. Secondo uno dei suoi primi assistenti, “l’immagine più appropriata, che meglio lo descrive, non è quella del ragno impegnato a tessere la tela, o della formica che raccoglie quanto trova sulla via: è quella dell’ape, che di fiori in fiore sceglie il nettare migliore per il suo miele”. L’ultimo libro, Dominio e sottomissione. Schiavi, animali, macchine, intelligenza artificiale, “è il suo testamento”.

“Andare alle sue lezioni era una festa” ricorda l’allievo Alfredo Ferrarin “ed era pieno di energia, instancabile”: “A un convegno organizzato a Torino per festeggiare i suoi 80 anni, parlò un’ora a braccio e, dopo l’interminabile applauso, Bodei alzò la mano e disse, in perfetto torinese, ‘esageruma nen’. Nel volume che raccoglie gli interventi di quel convegno, c’è un suo saggio in inglese, che vale come un’ultima auto-presentazione: si intitola Understanding myself”. “Nelle ultime ore molti hanno ricordato, sui giornali, il suo essere mite, la sua bontà” chiosa l’allieva e poi assistente di Bodei, “io invece la chiamerei lietezza: era una persona sempre lieta”. “Una volta, a lezione, ci chiese se sapevamo perché il Palazzo dei Fiumi e Fossi fosse arretrato rispetto agli altri edifici che si affacciano sul Lungarno pisano, avendo un ampio giardino davanti. Ci spiegò così che su quel terreno vuoto si diceva sorgesse il palazzo del Conte Ugolino della Gherardesca: dopo la sua condanna i pisani rasero al suolo l’intero edificio e nulla fu più costruito al suo posto”.

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Le parole più stantie sono quelle del politico, il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi. Parla di “fine degli intellettuali”, e della portata “europea e internazionale” dell’intellettuale da cui ci stiamo congedando. I presenti iniziano a distrarsi, comincia a piovere, si aprono gli ombrelli. Infine, a nome della famiglia, parla brevemente il nipote. È giovane, ha un foglio in mano, e la mano trema. Ma la voce è molto ferma. Ricorda che, per avvicinarsi a lui, Bodei tornò a interessarsi di calcio, rispolverando la passione per il Cagliari: “Alla fine ne sapeva più di me”. In questi tempi bui, “in cui siamo sempre più accartocciati su noi stessi e la politica di ogni colore e a ogni livello dà il peggio di sé” Remo Bodei ci invita a “coltivare la curiosità”. È questo il suo più importante lascito.

In quell’istante capisco perché sentivo l’esigenza di presenziare a questo funerale laico. È come se fossimo accorsi tutti lì, nel chiostro della Sapienza, per capire cosa ci mancherà davvero, di Remo Bodei, cosa ci ha insegnato il suo modo di essere filosofo, docente universitario, cittadino impegnato e cosa possiamo apprendere dalla sua eredità. Understanding Bodei, per comprendere noi stessi. La cerimonia finisce, si rompono le righe, le persone si riparano sotto al porticato. Saluto il mio professore di filosofia politica, appoggiato a una colonna. Gli sorrido. Esco dalla Sapienza, ci sono le mele di Josef da prendere al mercato contadino, e poi mi incamminerò verso casa di Alice. Pensando che da quel professore con la spesa in mano avrò, e avremo, ancora molto da imparare.

Ultima corsa sotto la pioggia

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Il Duomo. Foto di Donatella Trevisan

È come se solo sotto la pioggia io ritrovassi la mia città. Perché i temporali estivi bagnano tutto e tutti, equamente, indistintamente. Creano disagio, una sensazione che tante volte ho associato a Bolzano. Quando il campanile del Duomo si staglia nel cielo plumbeo e l’acqua vien giù come un’oscura benedizione, solo allora la città si disvela, si scopre vulnerabile, e non resta che correre sotto la pioggia battente. Una corsa che finisce all’autobus coi vetri appannati e i passeggeri stipati, parlanti le lingue più disparate. Il 111 si snoda per le strade a mo’ di lombrico, passando in rassegna i luoghi della nostra geografia urbana: via Cassa di Risparmio, ponte Talvera, il monumento, Corso Italia, il duce a cavallo, via Roma. Nell’autobus “pieno di immigrati” mi sento al mio posto, seduto, in movimento e un po’ infreddolito. La città scorre fuori, fradicia, zuppa, come una persona qualunque, come me. Albanese, algerina, persiana. Ripenso al tram 28 che solca le vie deserte di Lisbona, all’imbrunire, anche lì correndo sotto la pioggia, affollato sino all’ultima corsa. Scendo, le persone rientrano velocemente nelle loro case, nel frattempo ha smesso di piovere, la notte è calata, un po’ di vento si alza a muovere gli alberi del viale. E non so più dove mi trovo. È forse questa che chiamano casa?

#isoglosse #santaapollonia